venerdì 5 maggio 2017

Messa per il Card. Mindszenty – Omelia del Card. Gianfranco Ravasi




Il Card. Ravasi alla messa per Mindszenty
(foto: I. Szabó)
Ogni liturgia comprende come due sguardi. C’è uno sguardo che è rivolto verso l’alto, verso l’infinito e l’eterno, verso Dio e su Cristo, verso la Sua Parola che scende dal monte come per Israele dal monte Sinai cioè dall’orizzonte della trascendenza, del mistero.

Ma ogni liturgia comprende anche uno sguardo orizzontale. Gli occhi negli occhi. I volti che s’incontrano. Non per nulla, questa parola, liturgia, come ben sapete, significa in greco l’opera di un popolo, di un’assemblea. E per questo motivo che io vorrei iniziare questa riflessione proprio da questo primo sguardo. Uno sguardo che è anche segnato nella liturgia dei saluti.

All’inizio vi ho salutato con il saluto stesso che Gesù fa ai suoi discepoli: la pace sia con voi. Shalom – in ebraico. Ci si stringerà la mano. Ed è per questo che vorrei iniziare salutandovi tutti voi che siete qui presenti che sono stati ricordati all’inizio, a partire dei sacerdoti che sono qui con me, intorno a me in questa meravigliosa chiesa romana, e tutta la comunità ungherese, rappresentata qui anzitutto dalle sue autorità diplomatiche.

La riflessione che faremo insieme a voi, sarà una riflessione familiare, perché voi mi avete chiamato a celebrare la vostra memoria tra l’altro attestata anche da una presenza di un coro, un’orchestra che viene dalla vostra terra, una terra, che anche io ho visitato, la terra che è cara anche a Mons. Acerbi, che là ha vissuto come nunzio per sette anni.

Io vorrei prima di tutto ricordare con questo sguardo familiare la figura che è qui idealmente, spiritualmente presente: la figura del Cardinale Mindszenty. E lo faccio attraverso le parole di colui che ha avuto con lui un rapporto stretto, difficile anche, cioè con la memoria che fa di lui Paolo VI. E come sapete, aveva dovuto chiedergli quel sacrificio: “Ti scrivo davanti al crocifisso che un giorno giudicherà me e Lei” - chiedendogli le dimissioni da Arcivescovo di Esztergom. Ecco le parole di Paolo VI, giunte dopo, pochi giorni dopo la morte del Cardinale Mindszenty: “Singolare figura di sacerdote e di pastore, il Cardinale Mindszenty! Ardente nella fede, fiero nei sentimenti, irremovibile in ciò che gli appariva dovere e diritto. La Provvidenza lo pose a vivere, fra i protagonisti, uno dei periodi più difficili e più complessi dell’esistenza millenaria della Chiesa nel suo nobile Paese. Fu, e continuerà certamente ad essere, segno di contraddizione, come fu oggetto di venerazione e di attacchi violenti, di un trattamento che colpì di addolorato stupore la pubblica opinione e in particolare il mondo cattolico e che non risparmiò la sua persona e la sua libertà”.

Così parlava il 7 maggio 1975 Paolo VI. Io ricordo ancora – da studente, ma già sacerdote qui a Roma – l’arrivo a Roma del Cardinale Mindszenty, accolto da Paolo VI, e la celebrazione che insieme hanno fatto nella Cappella Sistina. Poi successivamente il Cardinale, come sapete, si ritirerà dopo un mese o due a Vienna. Questa è la memoria dello sguardo orizzontale cioè la memoria che facciamo insieme di un evento, che è soprattutto vostro, a cui avete voluto invitarmi.


E ora passiamo al secondo sguardo, quello che è rivolto verso l’alto, verso la Parola di Dio che ora abbiamo ascoltato. Ed io vorrei fare con voi due brevi riflessioni, scegliendo quasi due fili, due teli che scendono da questa Parola di Dio.

Il primo è dall’interno di quel racconto nella prima lettura degli Atti degli Apostoli (Att 8,27-39). Voi sapete che gli Atti degli Apostoli sono il ritratto molteplice della chiesa delle origini. E nell’interno c’è anche questa strada, la strada che va da Gerusalemme ad Asdod un centro della Terra Santa meridionale. E su questa strada cammina questo diplomatico, alto funzionario della regina di Etiopia. Questo personaggio è uno dei cosiddetti timorati di Dio negli Atti degli Apostoli. Cioè chi sente il desiderio di entrare quasi nella comunità dei fedeli dell’Alleanza. Ed è per questo che sta studiando, leggendo un rotolo della Bibbia. È una pagina celebre del profeta Isaia, il cosiddetto quarto canto del Servo del Signore. Una pagina che è stata letta in chiave messianica soprattutto dai cristiani che lì ha visto il profilo di Cristo. Perché il Messia, leggendo quella pagina, non è il Messia trionfatore, il Messia che entra in Gerusalemme a cavallo, come un imperatore, come un liberatore politico. Il Messia del canto di Isaia è invece una persona sofferente, ferita, una persona si dice a cui si ha vergogna quasi a guardare il volto, tanto fa impressione. Ecco le righe che sta leggendo questo funzionario eunuco della vicina Etiopia. Isaia dice: come una pecora questo servo del Signore fu condotta al macello, come un agnellino senza voce a chi lo tosa. Così egli non aprì la sua bocca.

E qui c’è la frase che vorrei ricordare ed una frase che idealmente si può applicare alla figura del Cardinale Mindszenty: nella sua umiliazione il giudizio, il giudizio giusto, gli è stato negato. Ricordo ancora ero molto giovane, ragazzo, quelle immagini del processo che è stato aperto contro di lui.

Ed ecco il tema che lascio a voi, il tema della sofferenza. La sofferenza nella società contemporanea è segno di maledizione. È segno di rigetto. Tanto è vero che quando il dolore ci attraversa, si cerca in tutti i modi di uscirne. Nella Bibbia invece è segno non solo di purificazione ma di salvezza per le anime.

È una sorta di espiazione che viene fatta per il male del mondo per cui non sappiamo quanto male nostro e del mondo viene cancellato proprio da questi giusti che ancora oggi sulla faccia della terra sono perseguitati, umiliati – sono miseri, sono profughi, sono infelici, gli emarginati e gli ultimi della terra – che non hanno un giudizio giusto che sono nell’umiliazione, come dice il profeta. Loro sono in realtà coloro su quali si posa lo sguardo di Dio, anzi sono la presenza del Messia. Ricordate Gesù in quel discorso che c’è nel Vangelo di Matteo, dove è il Volto di Cristo oggi (Mt 25)? Il Volto che abbiamo perso ormai, non lo sappiamo com’era, i Vangeli non lo descrivono. Il Volto di Cristo è nell’affamato, l’assetato, il carcerato, il malato, l’ultimo.

La seconda riflessione sempre viene dall’alto, dalla Parola di Dio, in questo caso dal Vangelo che abbiamo ascoltato (Gv 6,44-51). Ed è quel brano, il frammento che abbiamo ascoltato in quel grande discorso che Gesù tiene in una sinagoga, la sinagoga di Cafarnao. I pellegrini vanno ancora oggi e leggono questo brano a Cafarnao nello spazio di una sinagoga che è posteriore, ma che è lo stesso spazio dove Gesù aveva parlato.

 E Gesù, nel brano che abbiamo ascoltato, introduce un elemento che è all’antipodo rispetto quello che abbiamo appena descritto. È un orizzonte di luce, oltre la frontiera ultima della vita, è l’orizzonte della Resurrezione. Per questo si legge nel periodo pasquale. Per sette volte, sette volte nel brano che è stato letto s’introduce questo tema: chi mangia di me, mio pane lo resusciterò nell’ultimo giorno; chi crede in me, ha la vita eterna; io sono il pane della vita, chi ne mangia, non muore; io sono il pane vivo, chi mangia di questo pane, vivrà in eterno; il pane che io do, è per la vita per molti. Sette volte il tema della vita del futuro della Resurrezione della gloria.

E anche questo brano idealmente si attacca a questa celebrazione, a questa memoria del Card. Mindszenty. Infatti, si ricordava all’inizio, la via della beatificazione del Servo di Dio: cioè l’essere, dopo la sofferenza, nella gloria, nella luce, nella pace. È il principio che deve reggere anche la nostra vita, quando siamo nella tenebra, nell’oscurità, il principio della speranza, questa virtù che, come diceva un poeta francese che a questa speranza dedicava un intera poema, è la speranza delle tre virtù teologali è la sorella più piccola. Le altre virtù – la fede e l’amore, la carità – sono sorelle grandiose. La speranza, però, come i bambini fanno con i loro genitori, tira per mano e fa andare avanti la fede e la carità. Ecco la speranza come spinta, stimolo, che ci fa  andare oltre, verso la luce.

Vorrei infine lasciare la parola a due persone che idealmente parlano a voi ora, qui. La prima è la voce di San Giovanni Paolo II nella cripta della Cattedrale di Esztergom, dove è sepolto il Cardinale Mindszenty, il 16 agosto del 1991. Davanti alla tomba egli pronunciò queste parole:

"Proprio all’inizio della mia visita in Ungheria, desidero rendere un cordiale omaggio alla cara e venerata memoria del compianto Cardinale Mindszenty che ha lasciato una luminosa testimonianza di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e di amore alla patria. Il suo nome e il suo ricordo rimarranno sempre in benedizione”.

Il suo nome e il suo ricordo sono in benedizione oggi.

E naturalmente, per l’ultimo, anche se non nella sua lingua, la sua voce, quella del Cardinale stesso, nelle sue Memorie:

“Nonostante tutte queste vicende non mi sento amareggiato. Cerco, anzi, di continuare, sostenuto dalla benedizione di nostro Signore. Continuare la missione della salvezza a favore delle anime degli ungheresi dispersi in tutto il mondo, con quello stesso spirito che mi aveva mosso a lavorare sempre in tutto il territorio della mia patria.”

(Registrazione e trascrizione del testo a cura di Márta Vertse)

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